PRIMA DELL'OTTO SETTEMBRE.
C'ERA UNA VOLTA LA PATRIA.
DO YOU REMEMBER?                      


UNA LETTERA INGIALLITA "...Sii buon fascista e buon italiano..."
Ventottodieci
 
 
    Mi e’ capitata sottomano oggi, 16 novembre 1999, la lettera autografa, qui riprodotta. Poche righe scritte da un padre al figlio il 26 ottobre 1936, prima della partenza per l’ Africa. Roba melensa , penso. Poi leggo ed in ogni frase, in ogni  riga, in ogni parola scopro il sapore di cose lontane e profonde, di sentimenti puri e di fede incrollabile, di forza morale, di obbedienza,  di fierezza e  di speranza. Ed in questo momento sorrido e penso.......penso che oggi,  probabilmente un padre non scriva  al proprio figlio ma, forse, gli telefoni, e certamente non per dirgli di essere fiero  e pronto a servire la Patria fin dalle fondamenta, cioe’ dalla famiglia, prima pietra necessaria per la costruzione di una grande nazione. Caricando  un ragazzo di appena 16 anni di  responsabilita’  grandi, ma che, il padre ne era certo, il ragazzo avrebbe saputo portare, perche’ cresciuto nel rispetto e nella consapevolezza di valori profondi e certi. No,  un padre di oggi non da’ e non puo’ dare, visto la cultura antipatriotica postbellica dei governanti italiani, i valori che quel padre ha dato al figlio.
    Leggendo la lettera, balzano immediatamente all’occhio le due affettuose carezze, che il padre da’ al figlio, ponendo su di lui, quiete e pace, ma anche una spinta forte, con la responsabilita’ del mantenimento della famiglia. 
    Invitare il proprio figlio ad essere prima un buon fascista, poi un buon italiano e comunque e sempre un fiero servitore della Patria, nella consapevolezza che e’ e sara’ un buon cittadino che non fara’ mancare lo slancio e l’ amore  dovuto alla propria nazione, danno l’ esatta misura della profondita’ dell’ insegnamento che il padre fino ad allora  ha dato al figlio e che  porta a compimento con questa lettera. E conferma ne sia la benedizione finale. 
    Ho voluto approfondire le vicende che sono poi susseguite.
    La famiglia oggetto di questa lettera era composta dal  padre, dalla   madre e da quattro figli,  due maschi e due femmine.
    Il 26 ottobre 1936 il padre ed il figlio maggiore partono per l’ Africa lasciando in Italia il figlio minore con due sorelle giovani e la madre. Il figlio minore, Marco Marini, fedele agli insegnamenti paterni,si arruola volontario all’ eta’ di 19 anni nel corpo dei Granatieri di Sardegna. 
    Solo all’inizio del 1940 la famiglia si riunira, a Diredaua.
 
    Sara’ pero’ una riunione di breve durata. Nel giugno 1940 la guerra incombe e padre e figli compiono fino in fondo il loro dovere, finendo  però tutti catturati e deportati  in campi di prigionia inglesi. Ma la purezza degli ideali e la certezza delle proprie convinzioni non possono essere fiaccate da alcuno stento, che anzi li rende invece  degli orgogliosi NON COOPERATORI. La madre e le figlie vengono rimpatriate con una nave della Croce Rossa verso la fine del 1942; il padre, dopo la prigionia nel campo 25 di Jol, è rimpatriato , perchè malato, nel dicembre  1945. I due figli , Ercole e Marco, P.O.W. 365 di Londiani (KENIA), ritornano in Italia solo nel dicembre 1946, data di definitiva riunione della famiglia. 
    Le traversie della prigionia  vengono ricordate  con dovizia di particolari dai superstiti che ho avuto l’onore di conoscere, quali l’ Ing. Ferdinando Panciera, che nel campo 365 P.O.W di Londiani ha progettato e relaizzato una galleria sotterranea per la fuga e che ha ridisegnato oggi le “BARACCHE”, casa comune di giovani prigionieri ma anche di uomini puri, o come il Dott. Nicola De Carlo, pilota dell’areonautica dalle ardite  gesta militari. Ultimi superstiti di una razza   di uomini ormai in via d’estinzione, di uno dei quali mi onoro di essere figlio.
 
Trascrizione della lettera:
 
Stazione Porta Susa - Torino 6/10/36
 
Caro Marco,
 con la nostra partenza tu resti l’unico rappresentante maschio della famiglia ed il suo naturale sostegno. Sei ancora giovane e già ti incombe un non lieve fardello, ma tu sei buono e spero che sarai laborioso. Aiuta come puoi la tua mamma e stalle sempre vicino di conforto nella sua difficile missione. Speriamo di vederci presto, ma se tale momento dovesse tardare ricordati che su di te riposa la quiete e la pace, nonchè il mantenimento della famiglia.  Sii buon fascista e buon italiano, e se io destino volesse che anche tu debba porgere il tuo valido aiuto alla Patria, io sono sicuro che tu lo farai con quello slancio ed amore che ogni buon cittadino deve al suo Paese.  Ti invio la mia benedizione ed il mio arrivederci e ti bacio tanto affettuosamente 
 
tuo babbo 
 
 
NUOVO FRONTE N. 198, Gennaio-Febbraio 2000 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

MARIA UVA, LA DONNA CHE SVENTOLAVA IL TRICOLORE
Franz Maria D'Asaro
Trascritto dalla cyberamanuense Aurora Sacco Fiandro
 
 
    Una bella notizia per coloro che, dopo la nostra rievocazione, ci hanno chiesto notizie sulla sorte di Maria Uva, la patriota italiana d'Egitto che nel 1935 aspettava in auto lungo le sponde del Canale di Suez il passaggio delle navi che trasportavano in Africa Orientale i legionari, sbandierando un grande tricolore. E li seguiva per 90 chilometri per poi tornare indietro. L'abbiamo ritrovata: ha 95 anni, ed è ospite di una casa di riposo in Romagna. Scrivetele, ne sarà felice. Questo è il suo indirizzo: Istituzione servizi sociali "Davide Drudi", strada Meldola - S. Colombano, n.47044 - Meldola (Forlì).
    L'abbiamo ritrovata anche e soprattutto grazie al regista della Rai Sergio Tau, autore di coraggiose trasmissioni radio-televisive, come "La voce dei vinti", testimonianze di protagonisti e combattenti della Repubblica Sociale, e della recente storia degli italiani d'Egitto durante la seconda guerra mondiale. Nel contesto delle appassionanti puntate dedicate alle vicende belliche del '900, ha avuto occasione di incontrare e intervistare anche Maria Uva. E cortesemente ce ne ha dato conto.
Intanto una rivelazione inimmaginabile: la patriota italiana Maria Uva non era italiana, ma francese. Nata nei pressi di Lourdes, si chiamava De Luc. Rimasta orfana quando era bambina, raggiunse la sorella emigrata in Egitto, a Porto Said. E lì incontrò Pasquale Uva, un tassista pugliese nativo di Bisceglie che portava in giro i turisti. E diventò spiritualmente, appassionatamente, italiana. 
    C'era un arabetto che correva ad informarla ogni volta che appariva una nave italiana all'ingresso del Canale. E lei, 32 anni, sempre pronta a preparare l'automobile, con il marito alla guida, per percorrerne le sponde e accompagnare i legionari, confortandoli con lo sventolìo della bandiera e canzoni italiane che diffondeva attraverso un potente megafono. Cantava soprattutto una sua composizione, e i legionari le gridavano: " Ricomincia, vogliamo impararla". E Maria ricominciava, due, tre, cinque volte. Tanto il tempo c'era: 90 km. non passavano presto. L'aveva battezzata: "La canzone di Maria". Questo il ritornello: "Passano di Suez il Canal / le navi volte all'Africa Oriental, quand'ecco di laggiù / si leva un canto / allor / è un canto che saluta il tricolor / Canta Maria Uva / i canti della sua terra / a chi parte per la guerra / il bacio di una sorella".
Ci voleva tanto fiato: "Prima di partire masticavo qualche acciuga per farmi venire la voce più forte".
Una notte, al ritorno, rimasero in panne nel deserto; il marito percorse 17 km. a piedi per raggiungere Ismailia e chiedere soccorso. E lei, sola, al buio, assediata dalle iene che ululavano intorno alla vettura.
Poche ore dopo, risolto il problema, eccoli correre incontro a un'altra nave appena attraccata a Porto Said, il "Gange", con a bordo 5.000 legionari.
    Ebbe un incontro con il poeta Auro d'Alba che le disse parole bellissime mai dimenticate: "Maria Uva, sei bella perchè sei l'Italia, sei tutte le donne d'Italia".
    Con i soldi racimolati fra i generosi connazionali d'Egitto, Maria, insieme con altri italiani che ne seguivano l'esempio, distribuiva sigarette ai legionari in transito.
    Quando nel Canale transitò la nave inglese che portava in esilio il Negus, si vide ad aspettarla una barca carica di suore e di tante bambine che sventolavano bandierine tricolori. Gli inglesi rispondevano da bordo con insulti e gesti osceni.
Il patriottismo di Maria Uva, che accendeva di entusiasmo i cuori degli italiani d'Egitto, le costò molto caro. Il marito non lavorò più, gli inglesi smisero di affidargli i turisti che sbarcavano a Porto Said per accompagnarli al Cairo, portarli in giro dalle piramidi al bazar, per poi depositarli a Suez, dove si inbarcavano. Gli tolsero il lavoro. Resistettero un po', ma ben presto non ebbero alternative: furono costretti a rimpatriare, a lasciare ogni cosa. Ma furono ricompensati dall'affettuosa accoglienza ricevuta in Italia. Mussolini li ricevette, decorò Maria con la medaglia della campagna d'Africa, e provvide a far sistemare i debiti che i coniugi Uva avevano contratto in Egitto dopo essere rimasti senza risorse: 50.000 lire dell'epoca.
Penarono qualche tempo prima di trovare lavoro, ma poi, per interessamento dell'aiutante di campo del Duca di Bergamo, che aveva casualmente riconosciuto Maria per le vie di Milano, lui fu assunto dall'azienda tranviaria cittadina. Il segretario particolare di Mussolini sistemò lei alla Maternità e Infanzia.
    Nel '45 Maria Uva rischiò di essere condannata a morte per i suoi "trascorsi fascisti". Si salvò perchè...era francese.
I sentimenti di Maria Uva erano comuni alla maggioranza degli italiani d'Egitto; 50.000 all'inizio della seconda guerra mondiale. Gli inglesi li incriminarono in massa con l'accusa di essere "very dangerous persons", persone molto pericolose. Quindi furono licenziati dai posti di lavoro, diffidati dal frequentare locali pubblici e di riunirsi, intimati a non esercitare attività economiche e commerciali, costretti a consegnare gli apparecchi radio, praticamente trattati da delinquenti e come tali oggetto di sequestri dei loro beni mobili ed immobili. E come se non bastasse, l'internamento in campi di concentramento del deserto degli uomini dai 15 ai 65 anni e delle donne ritenute "pericolose".
    Da una impressionante documentazione raccolta dall'Associazione Nazionale Profughi Italiani dall'Egitto, per iniziativa del suo animatore che la presiede con esemplare impegno, il Dr. Franco Greco, risulta che ben ottomila furono i nostri connazionali rinchiusi nei campi di concentramento. Il più duro fu quello di Fayed. Niente baracche, soltanto tende militari inglesi, pagliericci sulla nuda terra, pochissima acqua, assistenza sanitaria inesistente, nessuna possibilità di contatti esterni. In questo campo erano rinchiusi 5.500 italiani. Gli inglesi lo avevano suddiviso in 21 sottocampi che graziosamente chiamavano "cages", gabbie, separati l'uno dall'altro da reticolati di filo spinato. Si estendevano su un perimetro di oltre 5 chilometri. Oltre quattro anni di questa vita infernale in una landa desolata e torrida.
    Le donne erano state deportate nel campo di Mansurah, gli anziani e gli ammalati in quelli di Suez, Embabeh e Tantah.
Nei campi ci furono incidenti, tentativi di fuga, proteste, scioperi della fame. In più occasioni le guardie armate spararono contro i prigionieri: 4 uccisi e 13 feriti. Per le privazioni e mancanze di cure perirono 38 internati; senza contare i molti che non sopravvissero negli anni successivi a quel lungo periodo di sofferenze.
Unico sollievo la soccorrevole e rischiosa benevolenza degli egiziani, che attenuavano per quanto possibile il rigore delle leggi inglesi di guerra contro gli italiani.
    E a guerra finita, difficilissimo fu il reinserimento dei nostri connazionali. Gli inglesi, di fatto ancora padroni dell'Egitto, continuarono ad essere vendicativi, a frapporre mille ostacoli alla ripresa della nostra collettività, oltretutto praticamente abbandonata dai governi di Roma che si disinteressavano sistematicamente delle comunità italiane all'estero, in sospetto di rimpianti e nostaglie incompatibili con i nuovi orientamenti.
    Quando erano ancora rinchiusi nei campi di concentramento nella zona del Lago Amaro, al centro del Canale di Suez, un giorno i nostri connazionali videro arrivare due maestose corazzate: la "Vittorio Veneto" e l'"Italia", orgoglio e vanto della nostra Marina. Sembrò un evento gioioso, ci furono alcune ore di euforia, e invece... Le due navi erano arrivate laggiù in seguito all'armistizio dell'8 settembre '43, dopo aver ricevuto lo sconvolgente ordine di consegnarsi agli inglesi. Una decisione ritenuta indegna e vile da molti; fra gli altri, il leggendario comandante commergibilista Fecia di Cossato (1 medaglia d'oro, 3 d'argento e 3 di bronzo), che non riuscì a sopravvivere all'onta e si sparò un colpo di pistola. Aveva 35 anni.
    Gli equipaggi avevano creduto alla promessa che sarebbero stati considerati amici e cobelligeranti degli alleati; si trovarono invece in una condizione di estrema mortificazione, considerati inaffidabili. Praticamente prigionieri. E non potevano immaginare quale triste destino fosse stato già deciso per le due unità. Al momento inerti, con i motori malinconicamente spenti, isolate in mezzo al Lago Amaro, tra Asia e Africa, lungo le coste desertiche, aride e solitarie. Che farsene della facoltà di scendere a terra? Meglio restarsene a bordo, coltivando speranze sempre più fievoli, a lustrare bronzi e ottoni, a tenere in ordine le uniformi, a pulire ogni angolo dell'unità, in attesa che quell'assurdo esilio finisse. Tutte le ritualità continuarono ad essere rispettate: dall'alzabandiera al cambio di uniforme quando i marinai dismettevano la divisa di fatica, dalla minuziosa rassegna sul ponte agli onori prescritti per gli ufficiali che salivano o scendevano la scaletta, alla rigorosa osservanza del taglio dei capelli e della pulizia personale.
    Potevano scendere a terra: ma per andare dove? Intorno c'era il deserto, con una sola sgangherata baracca dove una vecchia greca serviva orribili caffè e birre di pessima qualità. Un po' più avanti uno squallido e maleodorante villaggetto, regno incontrastato di mosche, zanzare e immondizie. Assolutamente infrequentabile.
Così, per mesi e mesi, in attesa che si realizzassero le menzogne promesse con le quali erano stati indotti a consegnarsi all'ex amico, sfidando la vendicativa rabbia dell'ex alleato germanico.
Poi cominciò a farsi strada l'angosciosa idea che gli inglesi avrebbero finito per impossessarsi delle due corazzate, le più belle ed eleganti che si fossero mai viste nel canale di Suez. Un marinaio, Enrico Decembrino, di Bari, interpretando l'inquieto stato d'animo degli equipaggi, consegnò al comandante Spigai un biblietto nel quale c'erano scritte pochissime ma perentorie parole: "Il nostro dovere di marinai è uno solo: o a Taranto o a fondo".
Gli inglesi, informati, capirono che quegli italiani non scherzavano. Partirono allarmati dispacci per Londra. La risposta fu una decisione che definire ipocrita sarebbe una gentilezza: restituire le due belle navi all'Italia, alla fine del conflitto...ma con l'obbligo di demolirle.
    Una infinita tristezza, ma anche una malinconica consolazione: meglio quella fine che vedere le due unità con nuove bandiere straniere senza poter far sapere che una volta erano appartenute, con un passato di eroiche vicende, alla Marina Italiana.
E quando venne il momento di riaccendere le caldaie per attraversare di nuovo il Canale ed entrare nel Mediterraneo con le prore verso l'Italia per tornare in patria, condannate alla demolizione, la "Vittorio Veneto" e l'"Italia furono lustre come mai lo erano state.
    Andavano a morire in tenuta di gala.
 
 
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del 29 Dicembre 2000

L'EROINA DEL CANALE DI SUEZ Incontro con Maria Uva
Daniele Gaudenzi
Trascritto dalla cyberamanuense Aurora Sacco Fiandro
 
 
    Quando nel 1935, le navi che trasportavano i nostri soldati verso l'Africa Orientale percorsero il canale di Suez (realizzato fra il 1859 e il 1869 su progetto dell'italiano Luigi Negrelli) furono salutate da entusiastiche dimostrazioni dei connazionali residenti in Egitto.
    Una suggestiva copertina dell'indimenticabile "Domenica del Corriere", illustrata da Achille Beltrame, ci mostra appunto le navi dei legionari circondate da imbarcazioni colme di italiani festanti con bandiere tricolori. Annunciando alla radio l'inizio dell'impresa africana, Benito Mussolini aveva esaltato la mobilitazione di milioni di italiani, "un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola".
    In quei giorni, una giovane italiana, nata in Francia e residente in Egitto, divenne famosa in tutto il mondo per le manifestazioni di fervido patriottismo di cui si rese protagonista all'indirizzo dei nostri legionari, sfidando l'ostilità inglese. Il suo nome: Maria Uva.
    Un nome caro a generazioni di italiani autentici, come quelli di Norma Cossetto, la martire istriana, di Maria Pasquinelli, che colpì l'oppressore inglese, di Alfa Giubelli, che vendicò il sacrificio materno.
    Maria Uva si sentiva, come mi ha detto nei giorni scorsi, "mamma, sorella, sposa di tutti i legionari". Oggi la "ragazza del canale di Suez" è una dolce signora di 94 anni che trascorre le sue giornate, leggendo e conversando, in un pensionato di Meldola, la cittadina romagnola nei pressi di Forlì, che la ospita da anni. E' piccola, esile, fragile. Solo rievocando le vicende drammatiche e sanguinose delle persecuzioni che dovette subire nel 1945, ad un certo punto, s'è commossa abbandonandosi ad un lungo singhiozzo.
    Eppure si sente che questa donnina è dotata tuttora d'una grande energia interiore ed è ancora capace d'entusiasmi giovanili, soprattutto quando ricorda e rievoca i tempi e gli episodi della sua "avventura africana".
    Maria nacque in Francia a Villeneuve, presso Lourdes, nella famiglia De Luca, d'origine piemontese. Suo marito, Pasquale Uva, era nato invece in Egitto da genitori pugliesi. Quando gli italiani, sfidando le minacce della "Home Fleet" albionica, attraversarono il Canale di Suez (l'Egitto era controllato dagli inglesi) dirigendosi verso i porti dell'Eritrea e della Somalia, Maria si trovava nella terra dei Faraoni da 9 anni, avendo raggiunto la sorella che viveva al Cairo. Si era sposata nel 1933 ed abitava a Porto Said. Infiammata d'italianità, con l'amico Nino Scotto, si distinse ben presto nelle manifestazioni di saluto e solidarietà verso i nostri soldati colonizzatori che andavano a conquistare "il posto al sole" ed a spezzare le catene degli schiavi. Un piccolo arabo correva ad avvertirla: "Il piroscafo!" e allora Maria, ammantata in un tricolore, volava verso le sponde del Canale, gridava (senza microfono!) tutto il suo amore e cantava le canzoni della Patria.
    Correva felice e rispondeva al saluto entusiasta dei soldati, aggrappati alle sartie. "Fin dove ci accompagni, Maria?", le chiedevano sorridenti. "Fino ad Addis Abeba!" gridava Maria. In effetti, li accompagnava ogni volta per novanta chilometri, talvolta correndo a piedi o pilotando l'auto. Ed era davvero uno spettacolo straordinario - e divenne come un "mito" in tutto il mondo - quella "giovane in tricolore" che esprimeva gioia e fervore, salutata da tutti quei soldati e marinai che esplodevano festosamente alla sua apparizione.
    Gli inglesi, naturalmente, masticavano amaro e non nascondevano il loro disappunto.
    Maria se ne infischiava dell'ambiente ostile che la circondava, non aveva paura.
    Intanto la sua popolarità cresceva fra le comunità italiane nel mondo, anche a Brooklyn, dove la sua immagine era esposta nei negozi e sulle copertine dei nostri periodici. Maria Uva era divenuta il dolce simbolo del patriottismo italiano, l'espressione di una femminilità che s'imponeva fra tante difficoltà, rivendicando un suo ruolo attivo nell'ora del più esaltante impegno nazionale. Ma la reazione inglese non si fece attendere: il marito di Maria Uva si ritrovò senza lavoro e le angherie nei confronti della giovane coppia si moltiplicarono al punto che i due coniugi dovettero far ritorno in Italia nel 1937. Maria si ritrovò all'altare della Patria con gloriosi reduci della conquista dell'impero e fu poi ricevuta a Palazzo Venezia da Colui che ancora chiama affettuosamente "il mio Duce".
    Mussolini l'accolse con grande simpatia ripetendo: "Siete tre volte italiana!". Alludeva al suo fervore dell'italianità, intatto malgrado la lunga permanenza all'estero, in Francia, in Egitto.
    Onorata dal Duca D'Aosta e da Piero Parini, Segretario dei Fasci degli Italiani all'Estero, Maria fu invece delusa dall'incontro con Bottati, vago ed elusivo di fronte alle richieste di un posto di lavoro. Eppure le era stato consegnato un distintivo, fregiato del gladio romano, col quale il Duce le manifestava la riconoscenza del popolo italiano per il suo esemplare patriottismo!
    Fra l'altro la decorazione era stata indirizzata "Alla Signorina Maria Uva", con evidente (logico) disappunto del legittimo consorte.
    Pasquale Uva, morto nel 1969 a Meldola dove abitava con la moglie da 33 anni, trovò impiego a Milano nell'Azienda ferrotranviaria, mentre Maria s'impiegò dapprima all'O.N.M.I. presieduta dal famoso Marinotti della Snia Viscosa e qui si deve rilevare la grande capacità della giovane profuga nell'inserirsi negli ambienti altolocati, senza che la frequentazione dei personaggi della nobiltà e della finanza (dai Matarazzo alle Trivulzio) venisse a scalfire in alcun modo la sua spontanea freschezza ed il suo assoluto disinteresse. 
    Anzi Maria, che nel frattempo diede alle stampe il suo "Libro di Maria" (rievocazione appassionata della vicenda di cui era stata protagonista), approfittò della rete di conoscenze per dare vita ad iniziative di alto valore morale e di rilievo sociale (oggi si direbbe di volontariato) come "L'ora della lana", facendo fare le calzette alle signore dei salotti milanesi e impiegando le detenute di san Vittore nella preparazione degli abiti per i bimbi.
    Sia le nobildonne e le signore che le carcerate erano così impegnate nelle iniziative di Maria Uva, grazie alle quali furono vestiti ben 2.200 bambini.
    Ma con la seconda Guerra Mondiale, l'infaticabile donna s'occupò anche dei nostri soldati operanti nel freddo e nel gelo delle terre balcaniche, tant'è che organizzò il rifornimento d'indumenti adeguati, prodotti dalle sue volontarie, da Tirana al Montenegro. Nel contempo prese contatto con un celebre scenografo russo della "Scala" per dar vita ad un suggestivo spettacolo nel corso del quale, al Lirico, si esibì come cantante (il "pezzo forte", naturalmente, furono le "Canzoni del Canale", vale a dire quelle che, con la sua voce vibrante e gentile, aveva dedicato ai legionari dell'Impero). Furono tre serate indimenticabili. Con il 25 luglio 1943, suo marito si ritrovò nuovamente senza lavoro, ma il peggio accadde dopo il 25 aprile del 1945 quando, sfollata per i bombardamenti a Giussano (mentre la sua casa di Anzio s'era trovata nella "testa di ponte), si vide prelevata, assieme al marito, da un nugolo di energumeni partigiani che scaricatala poi da un camion, la presero a calci e la trascinarono, con insulti osceni, fino ad un luogo dove la terra era vistosamente chiazzata da macchie di sangue.
Lì era stata uccisa un'altra donna, un'Ausiliaria, ed i partigiani le dissero chiaramente che quella sarebbe stata anche la sua fine. Suo marito, disperato si gettò davanti a lei gridando: "Uccidete me! Lei ha fatto solo del bene!"
    I "giudici" partigiani erano tre e qui accadde l'incredibile. Il più anziano dei tre riconobbe Maria Uva e disse: "E' vero ha fatto del bene a mio figlio. Se le facessi del male, lui non me lo perdonerebbe".
    Non soltanto la lasciò andare, ma le regalò un pezzo di formaggio perchè si sfamasse.
Quando ritornò a Giussano, la popolazione era in fermento poichè intendeva liberarla dalle grinfie dei partigiani. L'accolsero perciò con grande calore.
    Ma le peripezie di Maria Uva non cessarono per questo. Il cognato Francesco era morto sotto le bombe americane, un altro familiare era finito in Russia.
    Lei si trasferì col marito a Bisceglie, dove poi conobbe un buon amico, Vito Canainello, il realizzatore del grattacielo di Bari. Poi da Roma andò a Nettuno dove, con Pasquale, visse in una trattoria, mentre il produttore israelita Morris Ergas, già legato alla Pampanini e poi alla Sandra Milo, aveva acquistato da lei casa e mobili. I coniugi Uva decisero infine di trasferirsi al nord, precisamente nella tranquilla Meldola, dove ebbero occasione di stringere amicizia con Plinio Pesaresi, già comandante di Giorgio Albertazzi nella RSI, nonchè col noto prof. Sartini, di chiari sentimenti fascisti.
    Maria Uva, naturalmente, non hai mai rinnegato i sentimenti e le convinzioni della sua giovinezza. E' stata "madrina" in numerose manifestazioni missine e combattentistiche. Io stesso la conobbi, negli anni Cinquanta, nella Federazione forlivese del MSI. Negli anni Sessanta, nel corso di una manifestazione alla presenza del leggendario Generale Bergonzoli ("Barba Elettrica"), Maria ricevette l'omaggio di ben otto Medaglie d'Oro. Particolarmente intensi ed affettuosi i suoi rapporti con Donna Rachele ("era mia sorella", dice).
    Oggi questa donna straordinaria, alla quale stanno dedicando una tesi di laurea presso l'Università di Bologna (il che è tutto dire), vive in precarie condizioni economiche. Vive in solitudine il tramonto della sua vita così intensa e coraggiosa, poichè l'Italia sembra proprio aver dimenticato colei che fu il simbolo di una giovinezza piena di ideali e di entusiasmi.
Sarebbe doveroso testimoniarle una concreta solidarietà. Lo merita per il suo splendido passato e per la sua attuale esistenza, fatta di dignitosa povertà e di silenziose incancellabili memorie.
 
 
LINEA Quotidiano del 3 Dicembre 1999

C'ERA UNA VOLTA L'AFRICA ITALIANA - La centenaria «sorella di Suez»
Franz Maria d'Asaro
 
 
    Giunti all'80^ puntata della nostra rievocazione di quella che è stata l'Africa Italiana, siamo molto lieti di dover tornare indietro. Per la fortunata circostanza che aver reso nota il 20 dicembre 2000 su questa pagina la storia avvincente e straordinaria di Maria Uva, "la pasionaria di Suez", ormai alle soglie dei 100 anni, ha dato luogo a una serie di iniziative di cui è giusto che i lettori siano informati. Da quel giorno di lei si sono occupati in molti, vecchi reduci d'Africa felici di averla ritrovata, giornali e televisioni, specialmente Paolo Limiti nel suo programma e il regista della Rai Sergio Tau, autore di coraggiose trasmissioni come "La voce dei vinti", testimonianze dei combattenti della Repubblica Sociale.
    Anche il capo dello Stato, Ciampi, ha voluto inviare, all'istituto geriatrico dove trascorre le sue giornate "la ragazza di Suez", "uno speciale, affettuoso pensiero per la gentile signora Maria Uva".
    La storia di questa donna è stata anche oggetto di una tesi di laurea al corso di Storia Contemporanea dell'Università di Bologna.
    Per chi lo avesse dimenticato o per chi non avesse letto quanto,di lei abbiamo già raccontato, ricordiamo che questa patriota così fervente e appassionata è in realtà nata francese, nei pressi di Lourdes, di cognome De Luc, animata da un grande amore per l'Italia dopo aver sposato un pugliese, Pasquale Uva, di Bisceglie, che gestiva un'autorimessa a Port Said, dove Maria, rimasta orfana da bambina, si era recata in visita dalla sorella emigrata in Egitto. Quindi il colpo di fulmine, una stupenda storia d'amore con Pasquale e una nuova vita sulle rive del Nilo con il marito italiano.
    Maria diventò un mito per i nostri legionari a bordo delle navi che li trasportavano in Africa Orientale al tempo della campagna etiopica nel 1935-36. Insieme con il marito ed altre donne delle comunità italiane di Port Said, Ismailia e Suez, aspettava i piroscafi all'ingresso del Canale e in automobile li accompagnava sin dove era possibile (90 chilometri) sventolando un immenso tricolore, lanciando messaggi e saluti, cantando attraverso un megafono motivi popolari e inni patriottici. Il Canale di Suez è così stretto che si può colloquiare senza troppa fatica dalle navi alle rive e viceversa. I soldati, commossi e sorpresi di trovare l'imprevista accoglienza a tanta distanza dall'Italia, rispondevano alla voce agitando fazzoletti e copricapi coloniali: Avevano cominciato a chiamare Maria con epiteti gentili; "l'usignolo del Canale", "la Signora di Suez", "Angelo protettore",        "Sorella canora", "La madonna del legionario", "Fiore italiano" e tanti altri appellativi poetici.
    Spulciando fra le migliaia e migliaia di lettere di quei volontari, che conserva con geloso orgoglio, si leggono espressioni di commossa riconoscenza, non soltanto da parte di umili soldati, contadini ed operai, cui costava grande impegno scrivere poche righe, ma anche firmate da personaggi importanti. Fra quelle dei generali, una, in data agosto 1936, è di Alberto Savoia-Genova, duca di Bergamo, comandante della Divisione "Gran Sasso", il quale elogia Maria Uva "per aver profuso tutto il sorriso e il fervore del suo italianissimo cuore; si è attiratala persecuzione straniera, ma si è conquistata la riconoscenza di centinaia di migliaia di soldati che non la dimenticheranno mai e porteranno caro il ricordo dell'esempio di amor Patrio che Ella ha loro offerto".
    Dopo averle dato atto di essere riuscita a donare ai legionari in transito "il saluto augurale della Patria ormai lontana"; il generale così conclude: "Con gli ufficiali, i fanti, gli artiglieri, i genieri e le truppe dei servizi della "Gran Sasso", io pure, loro comandante, ringrazio Maria Uva di quanto ha fatto per l'Italia e per tutti noi, e le invio il nostro riconoscente saluto".
    La storia di Maria Uva fu ben presto conosciuta anche all'estero grazie alle lettere che inviavano a casa i volontari venuti dalle nostre comunità sparse nel mondo, dagli Stati Uniti all'Argentina, dalla Francia al Belgio, dalla Germania alla Tunisia. E il caso di ricordare che i volontari, provenienti dall'estero erano stati organizzati in una apposita Divisione al Comando di Piero Parini, direttore dell'Ufficio Italiani all'Estero, poi ambasciatore al Cairo e infine prefetto di Milano. Anche lui commosso "nel ringraziare ancora una volta a nome dei Legionari dell'Estero questa italiana dell'Estero che ha scaldato con la sua fede e con il suo canto coloro che muovevano sulla via del Sud, italiani al cento per cento".
    Da queste lettere si apprende che oltre alle tante italiane di Port Said, Ismailia e Suez, che seguivano Maria Uva sulle sponde del Canale per accompagnare con canti e sventolio di bandiere le navi in transito, c'era anche un sacerdote, padre Agostino Romoli, il quale, anche di notte, a bordo di un motoscafo, si recava sotto bordo a portare saluti e benedizioni. Sul suo esempio le signore cominciarono a servirsi di imbarcazioni per avvicinarsi il più possibile ai piroscafi e far sentire ai legionari ancora più calorosa quella partecipazione.
    Uno spettacolo che indispettiva i marinai inglesi, i quali assistevano impassibili e gelidi a quel gran vociare di italico patriottismo. Erano gli equipaggi dell'incrociatore "Barham", dei cacciatorpediniere "Active" e "Antilope", dei sommergibili "E-27" e " H-32", della nave appoggio "Shillier". Scrisse un testimone dell'epoca, il colonnello Varo Varanini: "Guardavano muti, forse ammirati, e anch'essi, in cuor loro, pensavano alla Patria lontana".
    Poi, da quel gruppo di donne si levavano alte le note delle canzoni, e a bordo delle navi il silenzio diventava assoluto. Ma appena il canto finiva scoppiava l'entusiasmo. Racconta Varanini: "Maria Uva, invocata da prora, chiamata da poppa, cantava, cantava, cantava. Ad ogni strofa un applauso fragoroso, mentre un grido formidabile si alzava dalla coperta, dai ponti, dalle cabine, dalle stive del vapore, diventato loggione, palchi e platea. Un teatro semovente, gremito di migliaia e migliaia di spettatori".
    Ad un certo punto Maria avvertiva attraverso il megafono che fra poco la strada si sarebbe discostata per alcuni chilometri dal Canale: "Staremo un'ora senza vederci, il percorso stradale tornerà al Canale poco prima di Ismailia, ci rivedremo lì, arrivederci".
    E i volontari aspettavano (se era già sera nessuno andava a dormire), aspettavano appoggiati ai parapetti delle navi di riprendere a colloquiare con quella "sorella italiana". Di notte i fari delle automobili degli italiani illuminavano i tricolori issati sui cofani.
 
 
    Infine l'ultimo saluto in vista di Suez. Quindi il Mar Rosso. E un gran silenzio. A bordo tutti tacevano, tutti pensavano. Nessuno riuscì mai a dimenticare Maria Uva e le sue amiche. Migliaia e migliaia di lettere, cartoline, biglietti, fotografie con dedica, ne sono la riprova.
    In alcune missive si leggono anche ingenue proposte di matrimonio. Lei rispose a molti, impossibile rispondere a tutti.
Il rito patriottico di salutare e accompagnare le navi dei legionari in transito era cominciato per caso, al passaggio del piroscafo "Argentina". Sulla riva del Canale erano andati alcuni amici, Maria Uva con il marito, Antonio Galliano - che poi sarebbe partito volontario con la Divisione "Tevere" - Antonio Scotto e Stella Della Ricci. Fu tale l'entusiasmo dei soldati per gli inattesi festosi saluti di quegli italiani che Maria Uva decise di ripeterli e continuarli per tutto il periodo della campagna d'Etiopia. Si alzava all'alba, tornava a casa la sera senza più un filo di voce ma al mattino successivo l'aveva già miracolosamente recuperati, con l'aiuto di un po' di acciughe, come ben sanno i cantanti.
    A convincere Maria a perseverare c'era stato un telegramma trasmesso dal piroscafo "Toscana": erano i legionari che la ringraziavano con affettuose espressioni. Quel telegramma fece il giro di tutte le case degli italiani di Port Said, dove le navi in transito dovevano sostare per il pagamento degli esosi pedaggi che ci infliggevano gli inglesi e per il disbrigo delle altre formalità. E si apri un nuovo capitolo di solidarietà: i legionari cominciarono a ricevere non soltanto canti e saluti ma anche generi di conforto; dolciumi, sigarette, datteri, oggettini vari. Le signore si davano gran da fare per raccogliere fondi, acquistare doni e confezionare pacchi, un impegno non da poco: ne furono distribuiti circa tremila.
    C'erano poi anche le spese per il noleggio dei motoscafi. La tariffa era di 25 piastre per ogni ora, ma da quelle signore se ne pretendevano 60, prendere o lasciare.
    Alle quattro del mattino dell'11 ottobre 1935 i legionari che riposavano a bordo della nave "Gange" furono svegliati da un gran trambusto. Anche il generale Bertini, comandante della Divisione "Sila", anche Bottai, anche il console generale D'Alba. Dal ponte di comando avevano avvistato, all'imboccatura del Canale, a quell'ora impossibile, ancora e sempre lei, Maria Uva, con il marito e un amico, Antonio Scotto, lì, infreddoliti, in attesa dei legionari per salutarli alla voce e con lo sventolio del tricolore. Per poi accompagnare la nave lungo la strada che costeggia il Canale. Alla sosta successiva i legionari le consegnarono tre bandierine e un messaggio di gratitudine firmato da migliaia di volontari.
    Le ostilità degli inglesi e dei loro reparti indigeni procurò a Maria anche momenti ad alto rischio. Per esempio, quando un poliziotto sudanese tentò di sequestrare il messaggio di un legionario a lei diretto che era stato lanciato da una nave. Maria andò su tutte le furie, riuscì ad impossessarsi del foglio ma per impedire che l'agente lo leggesse fece in tempo a strapparlo a pezzetti e a gettarlo in mare. Il poliziotto, imbestialito, imbracciò il fucile puntandolo contro di lei. Dal piroscafo si levarono urla così potenti, con la minaccia di fermare le macchine e di scendere, che il sudanese preferì desistere e allontanarsi.
Dalle navi in transito anche personaggi importanti impugnavano il megafono per salutare e ringraziare Maria Uva: fra gli altri, i generali Badoglio, Teruzzi, Parini, il Presidente del Senato Giacomo Suardo
    E venne il triste giorno della resa dei conti, quando Maria e il marito dovettero abbandonare Port Said. Gli inglesi non avevano perdonato la loro "sfida". Ritirata la licenza a Pasquale, i coniugi Uva erano rimasti privi di risorse vitali. Non solo, ma erano stati definiti "very dangerous persons", persone molto pericolose. Dovevano andarsene.
In Italia trovarono affettuosa solidarietà. Furono aiutati dal governo a saldare i debiti che erano stati costretti a contrarre in Egitto per sopravvivere, e ottennero entrambi un impiego dignitoso.
    Ma le tribolazioni non erano finite. Negli anni terribili seguiti alla primavera del 1945, Maria Uva rischiò addirittura di essere condannata a morte per i suoi "trascorsi fascisti". Si salvò quando dimostrò, anche grazie al provvidenziale intervento dell'ambasciatore di Parigi, che era francese. Ne sarebbe derivata una seria complicazione diplomatica.
    In Egitto aveva lasciato tutto. Si era portata però il patrimonio più prezioso della sua vita: tutte le lettere dei legionari, migliaia e migliaia.
    Ha un solo desiderio: non essere dimenticata. E per questo chiede, tramite il nostro giornale, che le continuino ad arrivare lettere e cartoline di conforto e di solidarietà. Questo l'indirizzo: Maria Uva, Istituto "Davide Drudi", Mendola (Forlì) 47014.
Le lettere più recenti sono di figli e nipoti di legionari che le testimoniano quanto lei fu di sostegno morale a tanti soldati che, tornati in Italia, portarono nelle famiglie l'indimenticabile ricordo della "Sorella di Suez". 
 
 
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del Venerdì 22 Marzo 2002

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